13 febbraio 2009 – Globalizzazione vuol dire anche un’agricoltura sempre più fondata sulle monocolture (in Italia mais soprattutto, destinato in gran parte alla zootecnia intensiva), che ha dimenticato le stagionalità, le pratiche delle rotazioni colturali e molto altro delle proprie origini, e che – lo comunica l’Istat in uno studio pubblicato in questi giorni – sta avvelenando sempre più terreni e acque, nonostante nel periodo 1997-2007 si sia registrata una riduzione dei pesticidi impiegati pari all’8,2% rispetto al decennio precedente (da 161,1 a 153,4 mila tonnellate).
Le fonti ufficiali parlano di una riduzione nell’uso di insetticidi e acaricidi (-30,3%), fungicidi (-7,7%) ed erbicidi (-4,8%), di un incremento dei cosiddetti “preparati vari” del 39,3% e di un complessivo innalzamento del loro grado di tossicità (i cosiddetti “nocivi” hanno registrato un balzo in avanti del 28,9%).
Questo poco tranquillizzante quadro richiama alla mente lo studio 2008 dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sulla contaminazione da fitofarmaci delle acque italiane. Allora fu il 37% dei campioni prelevati a risultare sopra i livelli di guardia, principalmente a causa proprio delle monocolture del mais, concentrate nella Pianura Padana e destinate a sostenere l’insostenibilità ambientale della zootecnia intensiva. Troverebbero quindi conferma le voci secondo cui una parte dei pesticidi utilizzati (quella eccedente i limiti di legge) verrebbe acquistata in nero per evitare evidenze contabili dell’insostenibilità ambientale di questo tipo di agricoltura.