L’infelicità della vacca “industriale”, tra ferraglie nel cibo e additivi “appetitosi”

 È curioso, davvero curioso, vedere che la stragrande maggioranza dei consumatori “non vedano, non sappiano, non parlino” ma subiscano, subiscano e a volte si meraviglino – o s’indignino – per le frodi, le truffe, le porcherie che largamente circolano nel mondo agroalimentare. E che, circolando circolando, giungono sulle nostre tavole, molto spesso perché ce le facciamo arrivare noi stessi. 

Da che mondo è mondo nessuno ci obbliga a comperare un prodotto “x” piuttosto che uno “y”. Per lo più la mano va dove l’occhio (e il subconscio) la porta, più facilmente ad uno scaffale né troppo basso né troppo alto (le aziende della Gdo si fanno pagare laute prebende per i posizionamenti più vantaggiosi), ad afferrare quel tale alimento solo perché i suoi produttori hanno azzeccato una o più campagne pubblicitarie, rendendoci “benevoli” nei suoi confronti. Eppure basterebbe poco per cambiare registro, soprattutto oggi che la gran parte delle informazioni sono disponibili in rete.

 

Una di queste, bellamente postata nientepopòdimeno che dal quotidiano finanziario Il Sole 24 Ore giorni fa, ha lasciato esterrefatti anche noi, che di tanta informazione dalla parte del consumatore ci siamo fatti partecipi in anni e anni di ricerca, indagini, approfondimenti. E di denuncia. Si tratta – tenetevi forte – del problema dei materiali ferrosi presenti nell’alimentazione delle “mucche infelici”, quelle condannate a vita in stalla dalla zootecnia intensiva; quelle alimentate con insilati e mangimi, che il più delle volte vengono serviti loro con il carro miscelatore (immaginate una specie di betoniera che anziché far ruotare al suo interno cemento o malta, misceli granella di mais, soia e altre amenità del genere – per non parlare dei vari integratori – ad animali che la natura avrebbe voluto erbivori) nelle mangiatoie. Tutti i giorni la solita zuppa, o meglio il solito infelice pappone, “progettato” per produrre qualche litro di latte in più al giorno (eh sì, ma quale latte?). Latte che spesse volte finisce nelle confezioni “di alta qualità”, laddove detto termine altro non è che una lauta concessione di legge, legata a qualcosa in più, in termini di soli grassi e proteine.

 

In sostanza le cose stanno semplicemente così: nei campi in cui gli alimenti per queste povere bestie vengono coltivati (spesso senza rotazioni colturali, quindi impoverendo la terra di determinati elementi, che vengono poi aggiunti nelle loro malefiche versioni “di sintesi”) capita che arrivi di tutto: dai fili di ferro delle recinzioni, ai pezzi di latta, ai chiodi, ad altre ferraglie. Bene, tutto questo popò di immondizia viene tirata su al momento del raccolto e con quello si avvia verso il suo “naturale” percorso che lo condurrà nella mangiatoia delle povere bestie, e da lì nei loro stomaci.

 

Bene, anzi male! Perché qui viene il “bello”: l’uomo, che dalla bestia trae profitto senza alcuna propensione a considerarla un essere vivente – e senziente – non ha mai cercato di risolvere alla radice il problema, ma (siccome l’animale in questione non ha né voce né un sindacato a difendere i suoi diritti) ha semplicemente trovato l’ingegnosa soluzione di introdurre – udite udite! – una grossa calamita nel rumine di questi poveri animali, così che chiodi, pezzi di fil di ferro, di latta, e altri materiali ferrosi, possano rimanere solidali ad essa, per una vita (eh sì, perché la calamita lì resta, fino all’ultimo giorno di vita della vacca), evitando così di andarsene a spasso di rumine in rumine, di intestino in intestino, a far danno su danno (ferite, lacerazioni, ulcere sono all’ordine del giorno), e questo solo perché certi guai hanno dei costi aziendali, non per altro.

 

E allora, al di là della brillante “soluzione” che il prestigioso quotidiano finanziario reclamizza (con una breve notizia e un’intervista audio che ha le sembianze dello spot pubblcitario) e che non risolve il problema alla fonte (nei campi) bensì al carro miscelatore (un geniale accessorio che “cattura” il ferro prima che il mangime vada nelle mangiatoie), bene, al di là di questo, ecco che – informandosi, cercando notizie (qui, in forma più dettagliata), e poi azionando un po’ di sano dubbio sulla qualità dei prodotti che da lì ci arrivano, dagli animali – il consumatore può aprire un altro squarcio su un mondo che di motivi per essere scartato dalle proprie scelte alimentari già ne ha molti. E da oggi, è evidente, ne ha uno in più.

 

Sempre in tema di mangimi, cogliamo l’occasione per sottolineare un piccolo progresso che Bruxelles introduce, a vantaggio di chi consumi alimenti provenienti dalla zootecnia industriale: il regolamento 230/2013, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 21 marzo, obbliga i mangimisti, a partire dal 10 aprile scorso, ma con deroga per i mangimi già prodotti a quella data, sino ad avvenuta vendita, ad escludere dalle composizioni delle loro miscele la bellezza di oltre duemila additivi, utilizzati a vario scopo, ad esempio per aumentare l’appetibilità dei prodotti.

 

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12 maggio 2013