Quando la cattiva informazione (sul latte) arriva dall’Università (di Harvard)

La Harvard University – foto Daderot© – Creative Commons License

Per quanto soggetta a revisioni e adattamenti, in ragione del progresso scientifico e delle sue scoperte, la piramide alimentare è divenuta, nel tempo e alle nostre longitudini, un fondamento della dieta mediterranea. Gli statunitensi hanno più volte reinterpretato questo eloquente strumento divulgativo (alla base i prodotti di consumo quotidiano, e via via verso il vertice quelli da assumere in minor misura) modificandolo a loro piacimento (a volte innescando polemiche con i fautori della nostra cultura alimentare) ma il loro ultimo intervento correttivo appare come un’entrata a gamba tesa in un campo di calcio: del tutto gratuito e dannoso per chi lo subisce, vale a dire per il mondo del “buon formaggio”. E del buon latte.

 La “novità”, se di novità si può parlare, è che secondo gli studiosi della celeberrima Università di Harvard il latte andrebbe eliminato, assieme ai suoi derivati, in quanto alimento insalubre, o – a sentir loro – altamente dannoso. Al suo posto, nella grafica che ha soppiantato la piramide ma che ad essa si ispira (un piatto suddiviso in spicchi), oggi appare… un bel bicchiere d’acqua! E non sorridete più di tanto, perché in vero ci sarebbe da piangere.

Ben inteso, non che nell’acqua si possano trovare le sostanze nutritive del latte (per quelle, spiegano gli scienziati ci sarebbero lattughe, cavolfiori e broccoli) ma perché quest’ultimo farebbe male, essendo – è questo il messaggio che arriva al lettore – legato all’insorgenza dei tumori della prostata e delle ovaie. Ora, ben inteso che ognuno è libero di dire e pensare ciò che vuole,  resta però il fatto che da un’università, e per giunta di questo prestigio, ci si aspetterebbe un’informazione un po’ meno grossolana; se non altro per il suo potere di influenzare le coscienze e le scelte dei consumatori.

A ben riflettere – e non è che servano grandi scienziati per farlo – sarebbe più corretto affermare che (lo hanno dimostrato fior di studi) la forte presenza di ormoni nel latte industriale (specialmente negli Usa) è assai dannosa a chi se ne nutra con regolarità, ed è fonte pressoché certa di cancro (nei Paesi dove la zootecnia intensiva è marginale o assente l’incidenza di cancro della prostata, del seno e delle ovaie è quasi nulla), mentre il latte e i suoi derivati che abbiano alle spalle una zootecnia estensiva e sana (tutto dipende da come l’animale è nutrito e allevato) rimangono a pieno titolo tra gli alimenti utili per l’organismo umano. Non per nulla, diversi altri studi, anche recenti, ben dimostrano i benefici di latticini e formaggi da animali al pascolo come vettori di Cla (Acido Linoleico Coniugato), Omega3, betacarotene, vitamina E, sali minerali, etc.

Si rimane sconcertati nel leggere quindi sul sito web della Hsph (Harvard School of Public Health) l’invito a “limitare latte e prodotti lattiero-caseari ad una-due porzioni” – specificando che i loro “elevati consumi sono associati ad un incremento del rischio di cancro alla prostata e al rischio di cancro ovarico” – e a pensare che non sarebbe poi stato tanto difficile mettere i consumatori in guardia dal consumo di latte di origine industriale e dei suoi derivati, quelli sì a rischio, perché provenienti da sistemi di allevamento dissennati.

Eppure, negli stessi Stati Uniti d’America esistono allevatori rurali in grado di produrre latte e formaggi di qualità reale (quanti piccoli produttori di formaggi a latte crudo sono nati negli ultimi venti anni? un’infinità!). Che senso ha generalizzare in questo modo? Perché? Perché spingere ora la gente a bere acqua anziché latte (quale acqua? non è forse inquinata l’acqua che sgorga da molti rubinetti del pianeta, e anche molta di quella presente sul mercato?) e a consumare verdure (quali verdure?) anziché formaggi?

«Il latte che beviamo oggi», ha affermato la dottoressa mongola Ganmaa Davaasambuu commentando una sua ricerca e riferendosi alla zootecnia industriale, «è molto diverso dal latte che bevevano i nostri antenati». Peccato per i divulgatori di Harvard che la dottoressa Davaasambuu lavori proprio nella loro stessa università.

16 giugno 2013