9 marzo 2009 – L’industria, si sa, deve vendere i prodotti che ha, dev’essere competitiva, propositiva (e se serve anche aggressiva) e dare al mercato quel che serve al mercato e, soprattutto, anche quel che non serve. L’industria alimentare propone e vende alimenti, a volte facendoceli apparire utili al fabbisogno nutrizionale se non addirittura indispensabili , e allo stesso modo quella del farmaco ci propone come universalmente utile – attraverso studi, ricerca, distribuzione, marketing e comunicazione – anche ciò che potrebbe servire solo a una parte del mercato.
A farci percepire utili o indispensabili cose inutili e a volte dannose ci pensano la scienza del marketing, appunto, e gli strumenti della comunicazione, di cui le realtà meglio organizzate si sono dotate a partire dagli anni Settanta.
Non è un caso quindi che l’Aisa (Associazione Nazionale Imprese Salute Animale; ma vedremo tra poco cosa ci si cela dietro questo nome, e capiremo di che salute si tratti, ndr) abbia di recente rilanciato il suo Codice Etico (nato nel 1989) trasformandolo in Codice Etico e di Autodisciplina dell’Informazione. Per capire bene di cosa si tratti e a che cosa serva, bisogna però fare un passo indietro e guardare quali siano le realtà costituenti l’Aisa, e quali fini ognuna di esse persegua.
Se nomi come Intervet Schering e Innovet possono essere sconosciuti ai più, Pfizer e Bayer di sicuro sono familiari a tutti. L’Aisa, che raggruppa quattordici realtà del settore, è quindi l’associazione nata dalle industrie del farmaco per uso veterinario, che commercializzano prodotti destinati agli animali di affezione e da reddito.
Lungi da noi la volontà di criminalizzare il farmaco in quanto tale (chi abbia avuto un’infezione o anche solo una bella influenza sa quanto un antibiotico, anche in dosi importanti sia un importante rimedio), quello che ci preme sottolineare è come la zootecnia industriale (o intensiva che dir si voglia) sia oramai schiava di farmaci che spesso accompagnano la vita degli animali sin dalla nascita o che sono stati introdotti per forzare la produttività, in una logica che più che le esigenze del mondo animale guarda alle logiche del profitto. Una logica che ha portato con sé le problematiche delle razze specializzate, destinate a produrre sempre di più e a vivere sempre di meno (mucche che per dare cinquanta litri di latte al giorno vivono poi tre anni e mezzo prima di essere – come si dice in quel settore – “rottamate”, ndr), a comportare un impatto ambientale non indifferente e una presenza non trascurabile di residui del farmaco in quel che giunge sulle nostre tavole.
Bene, anzi male: nella loro ultima assemblea nazionale – a cui il quotidiano Italia Oggi ha offerto un’ampia e acritica cronaca lo scorso 7 marzo – quelli dell’Aisa hanno fatto un gran parlare di etica e di benessere animale e la cosa più sconcertante è che lo stesso termine – “benessere animale” – opportunamente utilizzato in sede Ue per indicare la necessità di perseguire un maggiore rispetto per gli animali da reddito (nei trasporti, nella conduzione zootecnica, nell’abbattimento che precede la macellazione) è qui usato speculativamente per affermare la legittimità di un operato quantomeno opinabile.
Pensare che – come affermato dal professor Paolo Braghin, esponente di spicco dell’associazione – «il codice etico di Aisa è la manifestazione concreta di quella concezione moderna ed europea della sicurezza… finalizzato soltanto alla tutela della salute e del benessere animale, che garantisce anche e soprattutto la sicurezza alimentare dei consumatori, il rispetto dell’ambiente e degli operatori e lavoratori del settore» significa non voler vedere che la zootecnia industriale punta nella sostanza in direzione opposta, privilegiando l’efficienza produttiva basata sull’uso di prodotti farmacologici “mirati”, a discapito della vita dell’animale, e portando questo ad una maggiore vulnerabilità agli attacchi di patogeni opportunisti, una volta innocui.
Ma i fiori all’occhiello dell’associazione li ha presentati proprio attraverso Italia Oggi il responsabile comunicazione dell’associazione, Gianluca Donelli, che ha tenuto a sottolineare come la “necessità di raddoppiare la produzione mondiale di nutrienti” (dovuta all’incremento demografico a cui il pianeta va incontro, ndr) possa trovare una soluzione nell’operato delle aziende di settore con «nuovi farmaci che migliorano l’assimilazione dei nutrienti da parte dell’animale e che quindi consentono una riduzione delle razioni… oppure che consentono d’aumentare la produttività dell’animale da reddito». «…a qualcuno verrà in mente», ha concluso Donelli, «l’ormone somatropo, il principio attivo che consente un aumento della produzione di latte il cui impiego fu bloccato in Europa non perché nocivo per l’animale o per l’uomo, ma perché era in contrasto con la politica europea delle quote latte». Parole pesanti come macigni, che aprono una mesta finestra su una prospettiva di mucche da sessanta e più litri al giorno di latte, destinate a vedere accorciata una vita che la zootecnia industriale ha già reso assai breve.
Alla faccia del benessere animale.