Non sono bastati i fondatissimi allarmi espressi da Goletta Verde nel luglio scorso sulla criticità della situazione ambientale della costa molisana, dovuti all'aggressione del cemento e all'inadeguatezza dei sistemi di depurazione dei reflui urbani. Non sono bastati i dati, le documentazioni, la sovrapposizione dei rilevamenti aerei del 2011 e del 1988, che mostrano un litorale pesantemente cementificato in più del 29% dei suoi soli 35 chilometri. Né i prelievi delle acque alle foci dei fiumi, due su tre dei quali con escherichia coli ed enterococchi intestinali molto al di sopra della norma.
Non sono bastate le richieste di Legambiente, tese a sensibilizzare le amministrazioni locali sulla necessità di proteggere un territorio che sta velocemente compromettendo la sua vocazione turistica e agricola, di un'agricoltura prevalentemente su piccola scala, tanto compatibile con il turismo quanto fragile. Non bastava tutto questo per respingere al mittente l'indecente richiesta della Granarolo di voler collocare proprio in questo territorio, nel triangolo compreso tra Larino, Guglionesi e San Martino in Pensilis, nell'entroterra termolese, un esercito di 12mila manze (vacchette non ancora in lattazione) in un'unica attività allevatoriale dall'impatto ambientale devastante.
E allora, in questo spazio di incertezze e polemiche, di voci critiche e di intessi malcelati, assumono chiarezza le ragioni che hanno spinto il gruppo bolognese ad avviare l'operazione, mettendo sul piatto 18milioni di euro pur di raggiungere l'obiettivo. Cifra ufficiale, s'intende, a cui vanno aggiunti gli oneri delle operazioni di corredo, non ultima la creazione di una società estera in cui stanno confluendo i proprietari dei terreni sui quali dovrebbe sorgere la stalla-monstre.
Ma perché 12mila manze in un unico allevamento? E perché in Molise, e non al Nord, visto che del Nord Italia sono gli allevamenti di provenienza? Semplicemente perché gli allevamenti intensivi che forniscono la materia prima alla Granarolo non possono più permettersi il lusso di avere delle cuccette occupate da animali non ancora produttivi. E quei territori – la Pianura Padana in primis – non possono permettersi altro carico da questa folle zootecnia, responsabile dello sforamento dei livelli di nitrati in falda stabiliti a Bruxelles, dell'enorme consumo di acqua per le monocolture di mais, dell'enorme uso di fertilizzanti di sintesi e di fitofarmaci su distese sterminate di colture.
In altre parole, il sistema latte industriale è ormai al collasso, e questa sembrerebbe l'ultima spiaggia per evitare la chiusura di altre mega-stalle da centinaia e centinaia di capi. Ma a quale prezzo?
Difficile da calcolare l'impatto ambientale a medio termine, anche e soprattutto perché a fronte di qualche rassicurante progetto di parte (sempre avallati dagli enti locali, quando accompagnati da lauti esborsi), i rischi maggiori verrebbero in futuro, con l'assai probabile adozione di "soluzioni" di smaltimento con impianti a biogas, che all'inquinamento dei suoli e delle acque aggiungerebbe quelli dell'aria e del panorama.
Sull'altro piatto della bilancia, l'azienda bolognese mette poco, molto poco (almeno ufficialmente e ammesso che si possano accettare compravendite del genere), vale a dire cinquanta posti di lavoro, nell'odioso atteggiamento di chi baratta l'aggressione al territorio e alla salute della cittadinanza con l'offerta di posti di lavoro per i residenti.
Nel contesto generale di un grande e inevitabile clamore mediatico, emerge un lucido quanto documentato contributo dell'ingegner Nicola Felice, apparso lunedì scorso sul blog Bacheca Termolese (leggi qui) e ripreso da molti organi di stampa molisani, che qui di seguito vi raccomandiamo di leggere: "Operazione Gran Manze: profumo di m…. o di soldi?"
21 ottobre 2013