Sino ai primi giorni dello scorso agosto Tianjin era solo una delle maggiori città portuali della Repubblica Popolare Cinese, quarta municipalità più popolosa (13 milioni di abitanti) e sede di uno dei principali bacini produttivi tecnologici del Paese. Dal 12 di quel mese due forti esplosioni, con la conseguente emissione di sostanze altamente tossiche, segnarono la storia della città, portando morte tra i lavoratori, gli abitanti e – soprattutto – tra i vigili del fuoco accorsi. “Tianjin non sarà più la stessa”, si lesse sui giornali di mezzo mondo: 170 morti, 85 dispersi e centinaia di intossicati non si dimenticano facilmente. O forse sì, nel momento in cui la città si propone di ospitare – a partire dai primi mesi del 2016 – il centro di biogenetica più grande del mondo. Palesemente più grande: in grado di sfornare sino ad un milione di bovini clonati all’anno.
L’annuncio è stato dato lunedì scorso 23 novembre, e da martedì ha preso a rimbalzare sulla stampa mondiale: si tratterà del più grande investimento in biotecnologie mai fatto sul fronte della produzione zootecnica, pari a 200 milioni di yuan, vale a dire 31,3 milioni di dollari Usa. A puntarli su questa scommessa sarà una joint-venture cinese-coreana, che pare determinata a bruciare i tempi: “il più grande centro di clonazione animale al mondo (14mila metri quadrati) sarà operativo nel primo semestre del 2016”, hanno assicurato sorridenti.
Il centro di clonazione è stato costruito congiuntamente dalla Sinica – una sussidiaria del Gruppo BoyaLife, specializzato nella ricerca sulle cellule staminali e sulla medicina rigenerativa – dall’Istituto di Medicina Molecolare dell’Università di Pechino, dall’Accademia Internazionale di Biomedicina di Pechino, dalla Fondazione Sooam per la Ricerca Biotech della Corea del Sud, guidata dal professor Hwang Woo-suk, uno scienziato assurto alla notorietà internazionale dopo aver pubblicato su Science, nel 2004, i risultati di uno studio sulle cellule staminali, poi contestato da larga parte della comunità scientifica.
«Il nostro è un percorso senza precedenti al mondo», ha dichiarato senza mezzi termini l’amministratore delegato del gruppo BoyaLife Xu Xiaochun, «che inizierà da 100mila embrioni di bovini da carne, e punterà presto a fare suo il 5% del mercato interno della carne prodotta e macellata in Cina». Secondo un recente rapporto, la Cina ha quadruplicato il suo consumo di carne dal 1971 ad oggi, e più che raddoppiato dal 1991. Tra il 1996 e il 2014, mercato della carne bovina della Cina è cresciuto del 4,8%, mentre la domanda di carne di maiale è aumentata del 3,5% e quella di pollame del 3,4%.
A rassicurare gli scettici, riferisce il quotidiano China Daily, il gruppo BoyaLife ha chiamato il professor Zhang Yong, docente di veterinaria presso la Northwest University di Xi’an, nella provincia dello Shaanxi. «Il manzo dei bovini clonati», ha assicurato il docente, «è sicuro da mangiare».
Secondo gli analisti, entro dieci anni la richiesta di carni bovine crescerà in Cina di 2,2 milioni di tonnellate, e nonostante questi investimenti interni, le importazioni saranno fondamentali per sostenere la crescente richiesta. Seguendo l’esempio dell’Inghilterra, è prevedibile che la clonazione riguarderà anche le bovine da latte, settore in cui diversi investitori cinesi hanno in mente progetti che incrementeranno la popolazione animale di cifre a sei zeri. A differenza però di quanto accade nel Regno Unito, dove le produzioni da animali clonati sono annoverate tra i “nuovi prodotti alimentari” e sottoposte a particolari permessi relativi alla vendita, in Cina tutto dovrebbe avvenire senza badare troppo a sottigliezze.
Esprimendosi recentemente sui prodotti derivati da animali clonati, l’Efsa (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ha dichiarato di non aver riscontrato differenze evidenti tra la carne e i latticini di animali clonati e quelle di animali non clonati, ma ha ribadito la sua preoccupazione che il processo di clonazione possa causare problemi alla salute e al benessere degli animali, e di conseguenza a quella dei consumatori. Negli Usa invece gli animali clonati vengono utilizzati non come fonte di materia prima alimentare bensì come riproduttori, laddove questi verrebbero apprezzati per la loro capacità di “elevare” le qualità delle razze.
Tornando all’impianto di Tianjin, esso non si limiterà ad attivare la produzione di carne, latte e derivati, ma punterà a diversificare l’attività in un settore altamente remunerativo – stiamo parlando dei cavalli da corsa – e in altri ancora, come quelli dei cani da fiuto e da compagnia, e “si preoccuperà di dare il suo contributo” – assicurano i suoi responsabili – “alla salvaguardia delle razze a rischio d’estinzione”. Concludendo la propria intervista ai media cinesi, Xu Xiaochun ha voluto rassicurare chi ancora nutre dubbi: «Questa nostra attività sta per cambiare il nostro mondo e le nostre vite, per rendere queste migliori. Lo stato d’animo con cui ci avviamo verso questo traguardo? Siamo molto ma molto entusiasti».
Stando a quanto affermato dagli interessati, quello del biotech zootecnico è un settore con cui il mondo scientifico cinese ha particolare confidenza, avendo già clonato – negli ultimi quindici anni – bovini, ovini, suini e canidi. Secondo una rivelazione della Bbc, la Cina produce da tempo maiali clonati: l’emittente britannica riferisce di un’altra azienda del settore, la Bgi (Beijing Genomic Institute) di Pechino, che gestirebbe un impianto di clonazione in grado di produrre sino a 500 maiali clonati all’anno.
30 novembre 2015