La nave va a picco, ma come se niente fosse gli orchestrali continuano a suonare. Oramai è evidente: nessuno riuscirà a ripararne le falle, e non si tratta quindi di stabilire il “se” o il “come” ma solamente il “quando” l’imbarcazione si inabisserà una volta per tutte. Ammesso e non concesso che a qualcuno che non sia un allevatore questo possa ancora interessare.
Le fiere di settore continuano a proporre il loro solito trantràn, anno dopo anno, con contenuti apparentemente nuovi in contesti vecchi, infischiandosene del mercato reale (Lactalis ha appena annunciato il “suo” nuovo prezzo: 27 centesimi di euro al litro), puntando a interloquire con i pochi che hanno deciso di riorganizzarsi ampliando l’attività (con stalle da 800 o mille capi) e con chi ha stabilito proprio di questi tempi di puntare su una zootecnia nuova: postindustriale, tecnocratica e cibernetica.
Peccato però che al mutare dei dettagli (quali attrezzature per il futuro, quali diete, etc., ndr) non corrisponda alcun cambiamento nella sostanza: la “regina” indiscussa è sempre la mitica Frisona, attorno al cui fallimento (tre lattazioni e mezzo per capo, e i soliti problemi: mastiti, ipofertilità, zoppie, e via dicendo, ndr) si organizzano ancora i concorsi, con molti e vacui contenuti ma un unico fattore da premiare: la zizza più grande, la quantità che, a detta di molti – oggi come ieri – dev’essere “importante”.
Una quantità reale – quella del latte industriale – accanto a cui la qualità, fateci caso, è sempre presunta, fatta com’è solo di grassi, proteine, cellule somatiche e carica batterica (i quattro fattori su cui l’industria paga il prodotto, ndr). Mai una volta che si azzardino a parlare di micronutrienti utili, come gli Omega 3 (se li vogliono devono aggiungerli, ndr), il Cla (Acido Linoleico Coniugato, talvolta presente se nella razione sono stati aggiunti ad esempio semi di lino estrusi) e il beta-carotene (che come tante vitamine è e resta nell’erba). Argomenti imbarazzanti: meglio evitare.
In attesa che questi eventi – siano essi raduni, mostre o fiere di settore – si riorganizzino nei loro contenuti per scrollarsi di dosso l’ingombrante grottesco di oggi (vacche che sfilano in concorso, vestite a festa come se ci fosse qualcosa da festeggiare: visionate il video di ScaryDairy per capire), quel che ci tocca ascoltare va rispedito senza indugio al mittente: questa gente – fateci caso – parla di una realtà che non esiste: racconta di zootecnia di precisione, di benessere animale (quale?), di sostenibilità (con la monocoltura del mais?) e di chilometro zero (la prossimità di per sé è un valore relativo, se non irrilevante): tutti concetti abusati o totalmente vuoti di sostanza.
Fondamentale, per il consumatore, è ancora una volta la capacità di documentarsi e di ragionare con la propria testa, diffidando di chi mente sapendo di mentire, e che – per nostra fortuna – mentendo non riesce più a celare la menzogna. La cyberzootecnia sarà peggiore della zootecnia industriale, perché la tecnologia e il cosiddetto “progresso” su cui si fonda mai porterà in quel latte ciò che in quel latte non c’è né mai ci sarà. Perché le vacche che non sono nutrite con erba fresca o fieno, e con pochi ma buoni concentrati vegetali, e che non sono allevate in maniera estensiva non potranno mai e poi mai produrre nulla di realmente buono.
Nelle stalle-lager – perché di questo si tratta – non può né potrà mai nascere un prodotto apprezzabile: recludere animali a vita, spremerli per ottenerne il massimo, alimentarli contro natura (erano erbivori: gli danno mais e mangimi), con o senza braccialetti, telecamere e microfoni (li stanno introducendo – dicono – per monitorare in tempo reale ogni segnale anomalo giunga da ciascuna vacca!; leggete qui) non servirà a restituire al prodotto ciò a cui questi signori hanno da tempo irrimediabilmente rinunciato: la qualità reale.
25 gennaio 2016
(aggiornato il 28.12.2018)