I giornali hanno scritto tanto, tantissimo, la scorsa settimana, a proposito di due vicende assai gravi per quanto profondamente diverse tra loro, accadute entrambe nell’ambito delle produzioni casearie e riguardanti la sicurezza alimentare. Stiamo parlando dei trenta indagati in provincia di Brescia, responsabili di una grave adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari (latte per formaggi Dop con aflatossine: leggi qui e qui) e del bambino di 14 mesi ricoverato in pericolo di vita a Firenze (leggi qui) per aver mangiato del formaggio acquistato in una bottega di prodotti rumeni, risultato poi contaminato da escherichia coli. Formaggio che prima di “colpire” nel nostro Paese aveva già ucciso tre bambini proprio in Romania, senza che il sistema di allerte “rapide” Rasff riuscisse ad evitare la diffusione del problema.
Ma soffermiamoci sul primo caso, di interesse più generale (i formaggi erano destinati a migliaia di supermercati italiani) e caratterizzato dalla grande capacità di diffusione del prodotto: alla base della notizia, centinaia di ettolitri di latte con livelli di aflatossine (tossine cancerogene prodotte dal fungo aspergillus che attacca il mais in condizioni di clima caldo e secco) da cinque a centosessanta(!) volte superiori ai limiti massimi consentiti. Un latte fuorilegge che sarebbe servito per realizzare principalmente due dei formaggi Dop tra i più consumati in Italia: il Grana Padano e il Provolone Valpadana.
La notizia, letteralmente deflagrata martedì 15 marzo scorso dalle pagine dei quotidiani attraverso cronache più o meno essenziali (coinvolti produttori di latte e caseifici compiacenti, che si prendono dei rischi perché i controlli sono tutt’altro che asfissianti, ndr) ha poi visto la massima enfasi giungere nei giorni seguenti, con articoli di approfondimento quasi sempre orientati a scagionare i prodotti coinvolti nella vicenda. La tesi più diffusa: “non erano forme di Grana Padano, non avendo ancora subìto la marchiatura a fuoco”. Nulla di chiaro, neanche qui, sulle palesi inefficienze dei sistemi di controllo.
Ma cosa spinge allevatori e caseifici a produrre e lavorare latte fuorilegge? Di certo una remunerazione insufficiente anche per il latte destinato alle Dop: si fa presto a parlare di eccellenze e di produzioni virtuose: se il latte è mal pagato l’allevatore taglia i costi di produzione, ed ecco che i rischi, una volta tanto, sono sotto gli occhi di tutti. Ad essere messa sul banco degli imputati è ancora una volta una zootecnia che non si determina a fare un passo indietro, dopo aver puntato fortemente sulla genetica (per produrre di più) e su un’alimentazione a dir poco contro natura, visto che le bovine sono ruminanti, e vorrebbero mangiare erba e fieno. Non mais, né unifeed (il miscelone sempre uguale detto anche “piatto unico”).
Ecco allora che, di fronte alla necessità di alzare la guardia, per frenare gli illeciti, il sistema italiano dei controlli mostra le sue difficoltà, ben manifeste in una vicenda che ha avuto le prime segnalazioni raccolte in settembre e il termine delle indagini in marzo. Sei mesi in cui di forme fuorilegge ne sono state prodotte decine di migliaia, da cinque caseifici. Questa volta intercettate, altre volte chissà.
Una contromossa tardiva
Della gravità della situazione se ne devono essere accorti anche in Regione Lombardia, visto che martedì scorso al Pirellone è stato organizzato d’urgenza un incontro teso a definire un “Piano di gestione straordinaria dell’emergenza aflatossine”. Vizio italico quello di parlare di straordinarietà e di chiamare “emergenza” un problema cronico, ogni volta che esso torna sulle pagine dei giornali. Fateci caso: è già accaduto – e diverse volte – per la diossina nella Terra dei Fuochi, nella bassa bresciana e nei territori prossimi all’Italsider di Taranto. E tante altre volte ancora, non solo in ambito agroalimentare.
All’incontro hanno partecipato, i responsabili dell’autorità veterinaria regionale, quelli dei Carabinieri dei Nas, dei laboratori che eseguono le analisi di autocontrollo delle aziende produttrici, e poi mangimisti, allevatori, industrie di trasformazione.
L’obiettivo dichiarato da tutti i presenti è stato quello di “garantire nel minor tempo possibile la sicurezza del latte e dei formaggi prodotti in Lombardia”, per poter affermare – senza se e senza ma – che il latte lombardo e i suoi derivati sono sicuri e controllati. Per dare sostanza ai proclami, la Regione Lombardia ha affidato ai suoi dirigenti veterinari e ai tecnici della prevenzione degli obiettivi prioritari come lo svolgimento a tappeto di controlli straordinari, in collaborazione con i Nas, per eradicare “i pochi produttori e trasformatori scorretti”. E sul significato di “pochi” ci sarebbe da capire cosa si intenda.
Il Piano di gestione straordinaria stilato così rapidamente al Pirellone vorrebbe ora dare una risposta efficace ed immediata al problema delle aflatossine nella filiera lattiero casearia. Per fare ciò si prefigge di conseguire una partecipazione attiva e trasparente di tutti gli operatori della filiera, sotto il controllo dei Servizi Veterinari delle Ats lombarde (Agenzie di Tutela della Salute, come avrebbe dovuto essere nella normalità) e in stretta collaborazione con i Nas della Lombardia.
Il piano prevede a breve oltre 6mila controlli straordinari presso le aziende zootecniche e gli stabilimenti di lavorazione del latte, al fine di assicurare il rispetto delle garanzie in materia di salute e protezione degli interessi dei consumatori. A tale proposito l’assessore agricolo Gianni Fava ha auspicato «l’immediata attuazione del piano al fine di garantire, oltre alla tutela della salute e degli interessi dei consumatori, la stabilità della filiera lattiero-casearia, già pesantemente colpita da una crisi che affonda le proprie radici in altri contesti, ma che può contare su eccellenze che non devono passare in secondo piano». L’allusione dell’assessore al Grana Padano e al Provolone Valpadana sembrerebbe evidente.
21 marzo 2016