Temple Grandin è uno dei massimi esperti statunitensi nel campo delle Scienze Animali. Oltre ad insegnare presso la Colorado State University materie come “Comportamento del bestiame” e “Progettazione di strutture zootecniche”, è consulente per varie aziende del settore per quanto concerne la progettazione delle stalle e la gestione del bestiame, partendo dalla prospettiva del benessere animale. Dal suo profilo professionale spiccano più di quattrocento pubblicazioni, tra cui molti suoi articoli e un’infinità di interviste e pezzi a lei dedicati dai periodici del settore e da autorevolissime testate di larga diffusione quali The New York Times, Time Magazine, Forbes, Discover, United States News, People Magazine, World Report, solo per citarne alcune. L’ultima di queste, in forma di intervista, è stata pubblicato dal Washington Post il 21 aprile scorso e sta avendo tuttora una grande eco su larga parte dei media statunitensi.
Il tanto clamore suscitato dall’intervista è dovuto ai temi trattati e alla determinazione con cui l’esperta ha liquidato il poco edificante epilogo della “cavalcata genetica” delle bovine da latte, concretizzatosi negli Usa tra gli Anni ’50 e i giorni d’oggi. L’articolo, intitolato “Why a top animal science expert is worried about the milk industry” e firmato da Roberto A. Ferdman, fa chiaramente intendere la determinazione con cui la Grandin prende le distanze da un mondo in cui si riconosce sempre meno: «Quello che hanno fatto», spara a zero l’esperta, riferendosi all’intero sistema industriale, «equivale ad aver preso un’automobile, averla messa in folle, e aver fatto cadere un mattone sull’acceleratore, sino a farla saltare in aria». «Queste vacche da latte sono sempre nella zona rossa».
Al di là del suo stile espressivo, giudicato da Ferdman “un po’ iperbolico”, la spiegazione della Grandin è assai efficace. Basti pensare che una volta «il Paese era costellato di aziende lattiero-casearie», attualmente ridotte del 90 per cento rispetto al 1970» (dati del Dipartimento dell’Agricoltura). Ma a spiegarsi in maniera ancora più eloquente dell’esperta è il grafico che il giornale riporta (riprodotto qui a sinistra nella sua versione originale), da cui con un semplice colpo d’occhio si evince che con 2 milioni in meno di vacche da latte rispetto al 1980, gli Usa odierni producono lo stesso latte di allora.
La Grandin lo fa notare, e pone una domanda a dir poco retorica: “Chi si è assunto il peso di quel carico?». «Ma le bovine da latte, ovviamente». Con idee ben chiare su cosa voleva ottenere, l’industria ha spinto da tempo su quelli che Ferdman definisce “i suoi dipendenti a quattro zampe”. Questo per anni ha portato a modifiche operative, come la progettazione dei fienili e la programmazione scientifica degli orari di mungitura. «Ma più recentemente», sottolinea la Grandin, «ha significato un vero e proprio “avvitamento” nell’anatomia degli animali».
È andata così che le Holstein – da noi più conosciute come Frisone – che compongono la stragrande maggioranza delle vacche da latte negli Stati Uniti, non sono più come una volta. «In realtà», spiega l’esperta, «abbiamo modificato il loro patrimonio genetico del 22% dal 1970: le vacche da latte di oggi sono più alte, più pesanti, hanno mammelle più grandi ed alte, e tendono a stare in piedi sulle zampe in maniera innaturale». Il senso crescente, in tutto ciò, è che «siamo andati eccessivamente avanti».
Senza tralasciare i problemi legati ai trattamenti ormonali (realtà tutta statunitense, ndr), la Grandin punta ora il dito sulla genetica: le vacche vengono progettate per essere più grandi, più voraci e più produttive. Ma il limite, fa capire l’esperta, è stato superato ed «ora è tempo di suonare le campane d’allarme».
Secondo la professoressa della Colorado State University, il buon senso è stato smarrito dai più: anziché impostare gli allevamenti su vacche più piccole, allevate in maniera estensiva (negli Usa non mancano pascoli e foraggi polifiti) e in grado di vivere una vita più sana, dignitosa e lunga, si è puntato ad avere tanto e subito a dispetto della salute degli animali, che sta precipitando. La responsabilità, come detto è di un sistema industriale ampio ed articolato, di cui fanno parte tutti gli attori della filiera produttiva e tutto l’indotto (basti pensare quanto convenga all’industria del farmaco, questa situazione, ndr) ma ad essere nel mirino dell’esperta sono ora quelli che lei stessa definisce i “cattivi caseifici”. «che costituiscono la maggior parte delle aziende agricole negli Stati Uniti. Aziende in cui le vacche sono letteralmente distrutte alla fine di ogni mungitura; animali che quasi mai a fine carriera possono essere utilizzati per le loro carni”.
L’articolo, com’era prevedibile, ha suscitato la reazione delle associazioni tra gli allevatori. Il vice presidente della National Milk Producers Federation, Jamie Jonker, secondo cui «I produttori di latte devono essere intelligenti per in questa situazione. Sulla genetica bovina, meglio aiutare i produttori di latte ad allevare vacche sane, che a loro volta produrranno latte di qualità superiore». Jonker, che respinge le accuse e in particolare rifiuta l’idea che le vacche siano messe male in arnese, si aggrappa ad una prospettiva tanto curiosa quanto marginale: «Non tutti», cerca di spiegare, «vogliono vacche grandi. Alcuni preferiscono altri caratteri nella bovina da latte, e grazie alla genetica, ognuno può fare le proprie scelte».
L’articolo del Washington Post termina ricordando un caso definito “limite”: quello della vacca “Gigi la Diva” (nella terza foto dall’alto), che superando ogni limite mai raggiunto prima “ha prodotto, nel 2015, tre volte più latte rispetto alla media nazionale”. Ecco, quel che per molti, ignari allevatori, abbagliati dall’idea della produttività è una sorta di eroe leggendario, per la Grandin altro non è che «l’ossessione di un settore alla deriva».
«Si possono spingere le mucche sino al punto in cui iniziano a cadere a pezzi, e questo è quello che stiamo facendo», ha concluso la Grandin.
2 maggio 2016
Per leggere l’articolo del Washington Post, clicca qui (aggiornamento del 12.02.2021: l’articolo originale è disponibile solo a pagamento)