È notizia di pochi giorni fa: la Pioneer e l’Università Cattolica di Piacenza hanno annunciato un nuovo studio che punterebbe a contrastare il sempre più grave problema delle aflatossine nella coltivazione di mais in Pianura Padana. La soluzione – ammesso che di soluzione si tratti – si baserebbe sulla competizione che si instaurerebbe nelle coltivazioni tra diversi ceppi di funghi aspergillus: il ceppo tossico sarebbe contrastato da quello atossico, introdotto dall’agricoltore con un particolare sorgo devitalizzato (quindi non in grado di germogliare), che fungerebbe da vettore del “ceppo buono”.
Unica certezza la spesa da sostenere: 65 euro per ettaro, senza la benché minima garanzia del risultato. Una prospettiva che il mercato – di fronte ai sempre crescenti costi di gestione e al sempre più basso prezzo del latte alla stalla – difficilmente recepirà. Nel frattempo l’Onu ha appena lanciato l’allarme per il rischio di nuovi raccolti tossici. Il nuovo rapporto “Unep – Frontiers” mette in guardia sulle conseguenze di un cambiamento climatico già sta avendo un notevole impatto sulla sicurezza alimentare.
A detta dello studio, le alte temperature e le siccità potranno provocare l’accumulazione nei raccolti di sostanze chimiche, tossiche per gli animali e gli esseri umani. Inoltre, il rischio delle aflatossine (che possono causare cancro) rappresenterà un altro problema emergente nei raccolti. “Il rischio di contaminazione da aflatossine, specialmente nel mais, è previsto in crescita nelle zone più calde, a causa delle temperature in aumento. Uno studio recente prevede che questa tossina diventerà un problema di sicurezza alimentare per l’Europa, specialmente nello scenario più probabile di un aumento di due gradi centigradi nelle temperature globali”.
Il caso torinese
Nel frattempo – è notizia di venerdì scorso – anche la Abit di Torino è stata investita dal “problema aflatossine”. Come già accaduto in alcuni dei casi registrati nel bresciano, ancora una volta i responsabili dell’industria giurano di non avere responsabilità (ma saranno i magistrati ad investigare, ndr) e punta il dito contro alcuni conferitori. A detta dei Carabinieri dei Nas alcune partite di latte crudo provenienti da stalle del torinese e dell’astigiano avrebbero superato i limiti di legge delle aflatossine (aflatossina M1) e sarebbero rientrate nei valori grazie al taglio con latti non contaminati.
La contaminazione sarebbe stata certificata dai produttori in regime di autotutela, inviando campioni ai laboratori di riferimento. L’ipotesi degli investigatori, è che il latte contaminato sia finito nel ciclo produttivo, diluito con produzioni “sane” o venduto ai caseifici anziché essere distrutto, secondo le vigenti disposizioni di legge.
Oltre agli allevatori, potrebbero essere chiamati in causa anche alcuni addetti alla vigilanza sanitaria, che verrebbero accusati dell’omessa applicazione delle pur chiare normative peviste dal legislatore.
6 giugno 2016