Non è il latte a far male, ma l’informazione che non rispetta le regole

La sede della Uppsala Universitet - foto Pixabay©“Troppo latte fa male”. Ancora una volta degli esponenti del mondo scientifico hanno dato alle stampe i risultati di una ricerca effettuata in modo parziale, travisando totalmente quelli che dovrebbero essere i fondamenti del loro lavoro. Lo scienziato non ha attenuanti: in quanto uomo di scienza e coscienza dovrebbe operare rispettando i fondamenti della prima e il mandato di divulgatore, insito in chiunque si applichi nell’ambito di ricerche destinate ad essere pubblicate, ottenendo risonanza mondiale.

E invece no: ancora una volta dei ricercatori svedesi – quelli della Uppsala Universitet del Karolinska Institute di Stoccolma – hanno analizzato solo latti industriali, trascurando del tutto quelli prodotti da animali allevati ad erba e fieno, e hanno sentenziato poi, sparando a zero sull’intero comparto. Si salvi chi può!

   L’esito di una ricerca (a)scientifica
Ma vediamo più nel dettaglio l’esito della ricerca, basata su interviste raccolte da circa 106mila tra uomini e donne abitanti nel Paese scandinavo. A detta dei ricercatori, lo studio avrebbe dimostrato che coloro che consumano una grande quantità di latte corrono il rischio di una morte precoce rispetto a coloro che non la consumano, a causa di una infiammazione cronica dell’organismo. Rispetto ad altre analoghe ricerche svolte in passato, stavolta emergerebbe una differenza di rischio, a seconda del genere.

«In uno studio precedente», ha sottolineato il ricercatore Karl Michaëlsson della Uppsala University, «abbiamo osservato che un alto livello di consumo del latte è legato a una morte precoce. Tuttavia questo nuovo studio dimostra che esiste effettivamente una differenza di genere, che è qualcosa che non era stato dimostrato in precedenza».

«Il mio consiglio però», ha aggiunto il ricercatore, «è quello di vedere questo studio come un pezzo di un puzzle. Abbiamo bisogno di più pezzi del puzzle prima che le autorità possano dare delle raccomandazioni definitive» (ma allora perché sbandierare oggi risultati parziali? per atterrire la gente ed allontanarla dal consumo di latte? a chi può interessare questo?).

Lo studio, pubblicato di recente sull’American Journal of Epidemiology, ha ripreso le fila di una precedente ricerca che giungeva alla conclusione che i bevitori di latte non godono di una miglior protezione contro le fratture ossee, e per dirla con maggior precisione che per le donne l’assunzione di latte indurrebbe un maggior rischio di fratture. La nuova ricerca, dal canto suo, suggerisce che proprio tra le donne forti bevitrici di latte è particolarmente alto il rischio di non vivere a lungo.

«La qual cosa», suggerisce il Professor Michaëlsson, «potrebbe essere spiegata con alcune possibili differenze (già riscontrate in altre specie, ndr) per ciò che concerne il metabolismo e in particolare la scissione del galattosio. “Per le donne che bevono almeno tre bicchieri di latte e mangiano frutta e verdura un massimo di una volta al giorno”, hanno sentenziato i ricercatori (nonostante la parzialità della ricerca, ndr), “il rischio di morire prima è quasi tre volte superiore rispetto a quanto accada tra le donne che bevono non più di un bicchiere di latte al giorno e mangiano frutta e verdura almeno cinque volte al giorno”.

Più in particolare, tra le donne che bevono tre bicchieri di latte al giorno e che mangiano frutta e verdura almeno cinque volte al dì, il rischio di morte è maggiore del 60% rispetto alle donne che hanno consumato la stessa quantità di frutta e verdura, bevendo poco (o per nulla) latte. Per gli uomini invece il rischio di morte prematura sarebbe solo del 30% in più per gli uomini che bevono almeno tre bicchieri di latte al giorno, rispetto a quelli che raramente o mai bevono latte. Ulteriore differenza rispetto alle donne: pare che la quantità di frutta e verdura consumata non modifichi i risultati.

Rispondendo ad una domanda giuntagli da una giornalista in conferenza stampa, a proposito della opportunità di invitare le donne a moderare o sospendere il consumo di latte, Michaëlsson si è dimostrato cauto, sottolineando che «lo studio appena pubblicato è di tipo osservazionale, e da solo non dovrebbe essere utilizzato come base per raccomandazioni. Serviranno», ha concluso, «altri pezzi dello stesso puzzle».

Una (pessima) lezione mediatica ci attende
Per ora la notizia è stata ripresa da varie testate, più o meno specializzate, ma col passare del tempo verrà rilanciata da altri media, dalle agenzie di stampa alle testate gossippare, a quelle che cavalcano l’onda vegan e animalara per fede od interesse. Diamogli un mese di tempo o due e le conclusioni-a–senso-unico dei ricercatori svedesi offriranno nuove munizioni alle armi verbose dei degli uni e degli altri.

La vicenda dimostra, soprattutto a chi non si occupa di comunicazione, come tre aspetti fondamentali di una stessa vicenda (1. analizzare solo i latti industriali; 2. generalizzare; 3. esporre considerazioni prima di completare il “puzzle”), se gestiti arbitrariamente e spudoratamente male, possono condizionare l’opinione pubblica.

Aspettiamoci quindi che la notizia venga rilanciata da qualche distratto cronista o da qualche vegan-pennivendolo senza alcuna considerazione sui tre sacrosanti vulnus che la caratterizzano. Vedrete che in pochi passaggi, da un sito all’altro, all’altro ancora, e poi di bocca in bocca, uno studio parziale e mal fondato si troverà a circolare, come già accaduto in passato con altri studi, con i toni della verità assoluta.

20 febbraio 2017

Lo studio della Uppsala Universitet e del Karolinska Institut è accessibile da qui