Dopo un percorso durato due anni e mezzo, l’Inghilterra ha il suo buon latte da zootecnia estensiva, controllato, garantito, reperibile dal 1° marzo scorso in esclusiva in 109 punti vendita della catena di supermercati Asda, e riconoscibile attraverso il marchio “Promise Pasture”.
Ad innescare il complesso processo di sensibilizzazione, organizzazione, costruzione della “macchina” organizzativa che ha portato 30 allevatori ad aderire ad un sistema di allevamento etico e redditizio è stata una società senza fini di lucro che risponde al nome di Free Range Dairy e che sin dai primi passi, nel luglio del 2014, si è prefissata l’obiettivo di offrire agli allevatori una visione alternativa del futuro, fondata sui valori piuttosto che sui volumi, attraverso la promozione di una zootecnia che riesce a centrare questi tre fondamentali intenti:
• pagare un prezzo equo agli allevatori
• assicurare alle vacche la libertà del pascolo per sei mesi all’anno (giorno e notte)
• immettere sul mercato un latte sano e nutriente a prezzi accessibili ai consumatori
Free Range Dairy è una società registrata con un’attività ben determinata, i cui profitti vengono destinati ai propri membri e alla missione sociale che la società stessa si è data e che si prefissa di promuovere: dai valori intrinsechi al latte del pascolo, ai benefici che dalla sua produzione e dal suo commercio derivano per i contadini, le vacche e i consumatori.
Free Range Dairy si prefigge di informare i consumatori che le piccole aziende agricole tradizionali che producono latte come una volta – nutrendo le vacche con erba e fieni (60% minimo) e con integrazioni di cereali e leguminose (massimo 40%) e impegnandosi a far pascolare le mandrie per 180 giorni (ed altrettante notti) all’anno, sono efficienti, svolgono un ruolo fondamentale nel sostenere le comunità rurali e producono cibo di alto valore nutraceutico.
Uno dei principali intenti che la società si è data è stato quello di garantire agli allevatori un adeguato supporto tecnico e una competenza sempre maggiore per ciò che riguarda l’utilizzo dell’erba e la cura dei terreni. Inoltre, di renderli consapevoli del valore del latte degli animali al pascolo, e degli esclusivi benefici per la salute dei suoi consumatori, derivanti dal particolare corredo di nutrienti utili: dagli acidi grassi Omega3, alle vitamine, alla sostanza anti-cancro per eccellenza: il Cla o Acido linoleico coniugato.
L’intento dichiarato è quello di non cercare di creare un prodotto di nicchia bensì di portare del latte buono alla portata del maggior numero possibile di persone. E i primi passi sembrerebbero dare ragione ai promotori dell’iniziativa: il latte, che costerà un 20-50% in più rispetto al latte industriale, si attesterà sotto i prezzi del latte biologico, arrivando a costare 1,50£ la bottiglia da 2 litri e 0,90£ quella da litro.
L’accordo con Asda prevede in questa fase iniziale l’immissione sul mercato di 70mila litri a settimana, che potrebbero non bastare a soddisfare la richiesta, se il mercato confermerà l’interesse manifestato in occasione di un sondaggio condotto da YouGov nel 2015, in cui l’86% degli intervistati si era detto propenso a preferire i prodotti di bovini allevati al pascolo.
Un’Italia a due velocità
Nel nostro Paese, purtroppo, vari fattori hanno condizionato l’attuale situazione dei latti di gamma alta (e di presunta gamma alta), dalla conformazione geografica della nostra penisola, alle scarse (o a volte eccessive) precipitazioni, al clima sempre più caldo (spesso torrido in alcune regioni), alla carenza di sistemi di irrigazione nelle aree meridionali, e di conseguenza alla mancanza di un’adeguata attitudine al pascolamento, accompagnata spesso da un’assenza di cultura foraggera che – se si escludono le Marche e rari e quantomai sporadici altri casi – caratterizza palesemente l’intero Centro-Sud che è e rimane territorio di elezione più per la pastorizia ovicaprina che per l’allevamento delle bovine da latte, eccezion fatta per la parca razza Podolica.
Una situazione che purtroppo a partire dal 2010 ha visto attuarsi operazioni fallimentari che avrebbero dovuto portare ad una produzione diffusa di latte di qualità superiore, ma che in capo a sei anni non hanno condotto a nulla di rilevante (latti che, per dirne una, hanno rapporti Omega6/Omega3 attorno ai 4,2-4,4 mentre l’industria si attesta un’inezia più su, attorno ai 4,6-4,9, laddove un buon valore è sotto i 2,5 e l’eccellenza sotto i 2).
Il futuro del buon latte italiano? È nel Nord Italia
Il Nord, per contrapposti motivi (clima più favorevole, esistenza di prati in pianura, in collina e in montagna e una residuale e a volte buona cultura del pascolamento e della fienagione) annovera invece diverse aziende zootecniche estensive dedite alla produzione di latti alimentari da pascolo (perché è il pascolamento quel che più conta, per il benessere animale e la qualità del prodotto, ndr) e dei loro derivati. Purtroppo si tratta ancora di casi isolati, rintracciabili in Piemonte, Lombardia, Emilia e Alto Adige.
Se un giorno una realtà diffusa, organizzata e meritevole di attenzione dovesse nascere, nascerebbe da una di quelle regioni, magari supportata da chi in scienza e coscienza (è necessaria anche quella, ndr) potrebbe dare, come già accaduto in situazioni precedenti ma strettamente locali (pensiamo all’Università di Torino con il suo progetto Lait Real nel 2014), il necessario supporto scientifico che altrove, purtroppo, per negligenza e incapacità, è palesemente mancato.
6 marzo 2017