L’agroalimentare stenta a scrollarsi di dosso le sue cicliche disillusioni, che passano a volte attraverso vere e proprie truffe conclamate e altre volte incappano in campagne mediatiche non sempre del tutto trasparenti. Nei giorni scorsi, negli Stati Uniti, è scoppiato lo scandalo che ha investito uno dei latti organici più venduti – quello di vacche allevate al pascolo – confezionato con il marchio Aurora.
A sbatterlo sul banco degli imputati è stata un’inchiesta pubblicata dal Washington Post lunedì 1° maggio, al termine di un’indagine giornalistica che oltre ai rilevamenti fotografici ha finalmente addotto le analisi di laboratorio del prodotto, dimostrando che uno dei latti che i consumatori statunitensi preferiscono in assoluto, ritendolo più salubre, non sarebbe poi tanto diverso da quello proveniente da vacche allevate in maniera intensiva.
Gli autori del servizio giornalistico hanno affermato di aver visitato diverse volte il più grande impianto di produzione che rifornisce la Aurora, a Greeley (Colorado), dall’inizio della stagione di pascolamento al suo termine, catturando immagini satellitari ad alta risoluzione. Attraverso l’analisi di queste apparirebbe inconfutabilmente che solo alcune centinaia delle diverse migliaia di capi lì allevati sarebbero allevati al pascolo.
Come si può ben immaginare, l’allevamento al pascolo, per di più in regime biologico, comporta per il produttore l’adesione a pratiche che non dovrebbero essere eludibili, e che di certo comportano da un lato una maggiore salute per gli animali (e per i consumatori) e da un’altra differenti costi (più bassi se l’azienda riesce a produrre l’alimentazione per le bovine; più alti se la deve acquistare). E con migliaia di capi – si sa – servono migliaia di ettari (circa uno a capo) per garantire sufficienti quantitativi di erba e di fieno.
Una volta completato il dossier, i giornalisti del Washington Post hanno contattato l’Aurora, riuscendo a parlare con i responsabili delle ispezioni negli allevamenti e ponendo loro circostanziate domande (sul tempo speso dalle vacche al pascolo; sulla quantità e la natura delle integrazioni, etc.) si sono sentiti rispondere in maniera vaga e con argomenti non del tutto accettabili. A partire dal fatto che l’ultima ispezione compiuta in quell’allevamento risaliva al novembre del 2016.
Negli Usa i controlli alle aziende agricole vengono demandati dall’Usda (United States Department of Agriculture) ad ispettori certificati, e ogni azienda agricola è tenuta ad indicare il proprio ispettore, scelto tra le diverse società private autorizzate. Il sistema evidentemente non garantisce molto il consumatore, in quanto il 95% delle ispezioni vengono concordate tra le parti, mentre il rimanente 5% avviene senza preavviso, tra due soggetti che però hanno costruito nel tempo una relazione umana in cui la collaborazione (quantomeno l’aiuto del controllore al controllato affinché esso rispetti la legge, ndr) è in genere rilevante.
Inoltre, a parte situazioni eclatanti, gli uffici dell’Usda valutano l’esito delle ispezioni effettuate ad ogni singola azienda ad intervalli che mediamente si attestano sui 36 mesi. D’altro canto c’è da sottollineare quanto il cibo biologico stia vivendo dalla fine degli anni ’90 ad oggi un trend fortemente positivo, con un giro di affari passato dai 5 ai 40 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2015.
Tornando all’esito delle analisi di laboratorio (analisi degli acidi grassi, ndr) effettuate per conto dello Washington Post, i valori di quello che è ritenuto – forse a torto – il super-latte Aurora, biologico e del pascolo, ha fatto emergere diversi elementi sbalorditivi: con Cla (Acido Linoleico Coniugato) e Omega3 del tutto in linea con i valori dei latti industriali e assolutamente peggiori rispetto ad altri latti da erba.
Interpellata dalla stampa statunitense, che si è letteralmente scatenata nei giorni scorsi, rilanciando con il giusto clamore la notizia, la responsabile della comunicazione della Aurora Dairy, Sonja Tuitele, ha proposto una tesi del tutto personale e opinabile, asserendo che «siamo al 100% un’azienda biologica, da sempre impegnata a produrre latte biologico certificato e di alta qualità. Ci prendiamo cura dei nostri animali in maniera straordinaria, sino a superare i requisiti indicati dal programma biologico dell’USDA».
«Rigettiamo», ha aggiunto la Tuitele, «l’ipotesi che la conformità organica venga determinata da analisi di laboratorio. Produrre latte biologico certificato richiede la cura straordinaria degli animali e proibisce l’uso dei pesticidi sintetici, degli Ogm, degli antibiotici e degli ormoni. E la certificazione è l’unico test per la conformità biologica».
La contestazione addotta dai giornalisti e la replica ricevuta dall’azienda potrebbero indurre a credere che una situazione tanto concreta possa scivolare sul piano del nonsense. Per confutare una tale sventurata prospettiva basterà non perdere il contatto con quanto il mondo della ricerca scientifica ha saputo mettere a fuoco negli ultimi trent’anni sulla differenza tra i latti dell’erba e del fieno e i latti dei mangimi (insilati, unifeed): i due mondi zootecnici producono latti assai differenti, soprattutto nei loro micronutrienti utili all’organismo umano, altamente presenti nei latti prodotti in maniera estensiva, quasi inesistenti nei latti da vacche allevate intensivamente. Attestato questo, le analisi sono la inappellabile cartina di tornasole. Che premierà i produttori virtuosi. E metterà a nudo i tentativi di frode.
Si spera ora che all’inchiesta giornalistica seguano quelle dei competenti organi giudiziari, che portino alla luce le carenze e confermino le accuse. La sensazione registrata in questa prima settimana del mese porta a pensare che le vendite del latte Aurora avrebbero già subito un forte calo nelle vendite. Dopotutto la documentazione fotografica proposta dal Washington Post non lasciava spazio ad interpretazioni. Alcune di quelle fotografie, qui riproposte, sono altamente eloquenti e in forte attrito con l’iconografia che l’azienda ha saputo costruire attraverso il racconto delle proprie pubblicità e del proprio packaging.
Una morale buona anche per noi italiani
In qualche modo questa storia americana può aiutare anche noi che in Italia assistiamo alla nascita, invero un po’ sgangherata, di un mercato del latte del fieno (esistono pochissimi produttori di latte dell’erba e del fieno: non fatevi ingannare, ndr).
La morale che vi leggiamo è fondamentalmente una: il latte è alimento tanto prezioso – se prodotto rispettando la natura dell’erbivoro – quanto critico nella sua gestione: un buon latte ha bisogno di una catena del freddo senza falle ed ha una data di scadenza troppo breve per sopportare viaggi eccessivi. Un buon latte va consumato localmente, vale a dire nel raggio di alcune decine di chilometri dal luogo di produzione.
Un buon latte infine nasce in aziende con alcune decine di capi, giammai con centinaia (figuriamoci le migliaia del caso americano), che siano messi in grado di pascolare in terreni attigui alla propria stalla, avendo a disposizione idealmente un ettaro di prato a testa. Laddove l’azienda abbia però meno terreno (anche mezz’ettaro al limite potrà bastare), i foraggi potranno essere acquistati, ma sul territorio.
L’allevatore che si farà conquistare da prospettive espansionistiche sarà condannato al fallimento dell’impresa, o per l’ingestibilità della stessa o per via delle frodi in cui rischierebbe di cadere anche senza volere. Serve cautela, la massima possibile.
Le commerciali poi, che si legano a progetti di produzioni estensive con la mira di fare business andando a caccia di sempre nuove aree in cui distribuire e di sempre nuovi e difformi produttori, saranno i primi a generare situazioni mai troppo vicine a quelle desiderate, e narrate. Apparenti fautori del buono, pulito e giusto, saranno loro i principali nemici di un eventuale sistema organizzato nella produzione e distribuzione del latte dell’erba e del fieno e dei relativi derivati.
Le loro priorità commerciali saranno quotidianamente in conflitto con i fondamenti di queste produzioni: la bramosia di avere più latte domani per soddisfare il nuovo cliente acquisito e/o un eventuale incremento della richiesta condurrà questi personaggi inevitabilmente ad abbassare il livello qualitativo della loro proposta.
Un gioco che non andrà bene sempre e comunque a chi, ritenendosi furbo oggi, scoprirà un domani – di fronte alla pubblicazione delle analisi di laboratorio del proprio – che il castello di menzogne da lui costruito non poteva durare in eterno.
8 maggio 2017
Altre foto dell’allevamento incriminato sono visionabili qui, sul sito del Cornucopia Institute, che promuove la giustizia economica per le aziende su scala familiare.
Per leggere l’articolo del Washington Post (in lingua inglese) che ha denunciato la frode, clicca qui [aggiornamento del 23.09.2021: l’articolo è ora disponibile solo per gli abbonati].
È disponibile, per chi è registrato su Facebook, il video del Washington Post da cui sono tratte le immagini di questo articolo.